Il suo debutto nell’operetta avviene con un cult del repertorio, «La vedova allegra».
« E’ un assoluto capolavoro per diversi motivi. Un critico ha scritto che “ci sono le opere, le operette e Lehár”. E’ quasi impossibile far rientrare le operette di Lehár all’interno di quel genere illustre che va da Offenbach fino a Strauß. Le melodie della “Vedova allegra” sono “alla moda” e vengono incontro al gusto d’inizio secolo, fatto di sentimentalismo e di riconquista degli elementi folclorici soprattutto slavi. Si pensi, ad esempio, a “La Sagra della Primavera” di Strawinskij così come viene messa in scena nel 1913 da Nijinskij, riconquistando gli elementi del folclore russo. All’operetta viennese, che è più delicatamente sentimentale, Lehár sostituisce malinconia e sensualità che sono parte di quella magia tipica delle sue opere. Ci parla di un mondo che si sta dissolvendo, un mondo che di lì a qualche anno avrà il suo sbocco nella Prima Guerra Mondiale. Un mondo di felicità e di ebbrezza che avrà la sua dissoluzione completa all’interno della guerra o delle rivoluzioni che di lì a poco invaderanno tutta l’Europa».
Il direttore Wilhelm Karczag, nel 1905, considerava questa operetta «troppo nuova, troppo originale e profondamente rivoluzionaria nel suo soggetto intriso di forte erotismo».
«Questa testimonianza mette in luce il carattere erotico della “Vedova allegra”, che è uno degli elementi della sua fortuna. Un erotismo che permea non solo i dialoghi tra Danilo e la signora Hanna Glawari ma anche la musica. Per fare questo spettacolo, mi sono ispirato al film di Erich von Stroheim, “La vedova allegra”, del ’25, nel quale l’erotismo è portato all’ossessione feticista. All’interno del film appaiono elementi erotici che hanno costituito un turbamento all’epoca della presentazione. Nell’altro film che ho tenuto come riferimento, quello di Lubitsch, l’erotismo è più divertito, più ironico, più soffuso e meno ossessivo, però è ugualmente presente. E uno dei caratteri di questa mia “Vedova allegra” è l’erotismo della musica, la sensualità che intride il canto ».
Come traspare dalla sua messinscena?
«Nella “Vedova allegra” si parla, oltre che dell’amore, di un altro elemento essenziale, il denaro. In un colloquio con Monsieur Ballon, Peer Gynt afferma: “Voglio diventare imperatore di tutto il mondo”. E Monsieur Ballon gli risponde: “Come caro amico?”. E Peer Gynt: “Col potere dell’oro”. Siamo nella seconda metà dell’Ottocento, ed è evidente che il denaro poteva dare nuova identità. Quello che mi colpisce è come il danaro divenga il parametro principale di riferimento di un’identità sociale, all’interno di questa commedia. Hanna Glawari, si dice nel testo, era figlia di un fattore di campagna che attraverso il matrimonio con il ricchissimo barone Glawari riesce a conquistare una sua identità sociale, una sua posizione all’interno del mondo. Direi che addirittura Hanna Glawari si afferma come donna proprio grazie al denaro che le viene lasciato dal marito. Quella donna che aveva cominciato a prendere coscienza di sé con Goldoni, nella Locandiera, e che da allora in poi aveva seguito il suo percorso attraverso Nora Helmer, Hedda Gabler e tante donne della drammaturgia teatrale, con Hanna Glawari ha uno dei suoi punti di arrivo nel primo ‘900. Ho pensato anche a Marcel Proust, facendo quest’operetta. Ho pensato molto al fatto che il mondo nel quale si muove Hanna Glawari, per quanto viennese, è simile a quello raccontato nella “Ricerca del tempo perduto”. Il Pontevedro è in bancarotta: il luogo dove si svolge la festa è il salone di un palazzo che assomiglia molto alla hall di una banca. Ho spostato tutta l’ambientazione nel 1929, anno della crisi finanziaria mondiale. Ci sono grafici di borsa che in tutto il primo atto fanno capire che c’è un andamento disastroso, nello stato del Pontevedro. L’arrivo di Hanna, invece, fa improvvisamente impennare le borse. Hanna è la soluzione di tutti i mali finanziari del Pontevedro. E da qui nascono, il divertimento, l’ironia, il gioco fra i cantanti. Hanna, addirittura, entra in scena dentro a una cassaforte. …Tutta la scenografia è ispirata all’architettura di Alfred Loos e all’Art Decò viennese. All’interno di questa operetta è anche molto forte la presenza del teatro nel teatro. Mi è sembrato interessante far risalire tutte le parti recitate al music hall e al nostro varietà, isolandole con luci di proscenio, davanti a un sipario, come in un vero e proprio spettacolo di varietà. Mi è sembrato che tutto il testo detto dagli attori avesse bisogno di essere molto asciugato. Ho fatto con Francesco Torrigiani un lavoro di drammaturgia e di sintesi del testo originale in tedesco per vedere le parti che potevano rimanere e quelle che potevano essere tagliate. Altrimenti si rischia di recitare in scena non tanto le battute originali quanto piuttosto quello che nel corso del tempo hanno inserito i vari attori per far ridere il pubblico. M’interessava riportare “La vedova allegra” al dettato originale, alla fredda ironia che ha la stesura in tedesco. Quando poi ho pensato a tutte le coreografie, mi sono venuti in mente i film danzati degli anni Trenta e soprattutto quelli di Fred Astaire e Ginger Rogers, così come quelli dell’hollywoodiano Busby Berkeley, che metteva in scena grandi spettacoli e poi li filmava in maniera incomparabile: i riferimenti di questo lavoro sono principalmente cinematografici, volevo fare uno spettacolo come se fosse cinema».
(raccolte da Maria Cristina Vilardo nell’intervista rilasciata da Federico Tiezzi per il quotidiano il “IL PICCOLO”)
per gentile concessione dell’autrice e dell’Ufficio Stampa della Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste
(Comunicato/Fondazione Arena di Verona)
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